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25.03.2009 - MAGISTRATI IN POLITICA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
La lettera del giorno |Mercoledi' 25 Marzo 2009
 


Qualcuno potrebbe spiegarmi perché, se un magistrato vuole candidarsi alle elezioni dimettendosi dall'ufficio ricoperto o collocandosi in aspettativa, quindi senza stipendio, vi è grande levata di scudi e scandalo, mentre altrettanto non avviene per avvocati, ingegneri, architetti, ecc. i quali, a motivo della carica parlamentare ricoperta, certamente ottengono un indubbio vantaggio per i propri studi professionali?


Fausto Coradduzza, Tolmezzo (Ud),



Caro Coradduzza, fra il magistrato e le categorie professionali elencate nella sua lettera vi è una importante differenza. Il magistrato è un funzionario dello Stato, titolare di una funzione pubblica. Procuratore o giudice, soprattutto in un Paese dove le due carriere non sono separate, è la persona da cui dipende la sorte di un imputato, il riconoscimento di un diritto o l'eliminazione di un torto. Gli avvocati, gli ingegneri e gli architetti sono generalmente liberi professionisti. Si può sostenere, come è accaduto più volte in questi anni, che dovrebbero rinunciare alla loro attività privata per il tempo del mandato parlamentare. Ma non è possibile privarli del diritto di partecipare attivamente alla vita politica del loro Paese. Approfitto della sua lettera per qualche considerazione sul caso del procuratore De Magistris, ora candidato dell'Italia dei Valori alla prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. In altri tempi la scelta dell'ex magistrato di Catanzaro sarebbe stata accolta e commentata come la liberamanifestazione di un diritto civile. Oggi, dopo alcuni episodi giudiziari degli ultimi anni, il caso ha suscitato numerose reazioni. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Antonio Mancino ha detto che De Magistris non dovrebbe, dopo l'esperienza politica, tornare in magistratura. Carlo Federico Grosso, vice presidente del Csm dal 1996 al 1998, è giunto alle stesse conclusioni (La Stampa del 19 marzo), ma ha proposto che al magistrato in politica, dopo la fine del mandato, "si assicuri all'interno della pubblica amministrazione (magari garantendogli ampia facoltà di scelta) una funzione, un grado, uno stipendio adeguato al ruolo e alla funzione precedentemente esercitata"; ma non più, ha aggiunto, nell'esercizio della funzione giudiziaria. Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera dei deputati, ha detto a Guido Ruotolo (La Stampa del 20 marzo) che i partiti dovrebbero astenersi dal candidare magistrati nelle loro liste. E Marcello Maddalena, procuratore di Torino, ha detto a Dino Martirano sul Corriere del 19 marzo: "A un giovane collega che eventualmente mi chiedesse un'opinione, sconsiglierei vivamente l'ingresso in politica perché una mossa tale susciterebbe ombre retrospettive...". In altre parole molti si chiederebbero se l'attività svolta dal magistrato durante la sua carriera non fosse destinata a creare le condizioni per il suo passaggio alla vita politica. Come vede, caro Coradduzza, la decisione di De Magistris ha suscitato molte critiche e riserve. Ma il dibattito si è concentrato su un solo aspetto del problema. Non basta parlare di ciò che dovrebbe accadere quando un magistrato entra in politica. Occorre chiedersi perché tanti magistrati, soprattutto procuratori, abbiano scelto di rinunciare al loro mestiere per schierarsi con un partito ed entrare in Parlamento. Credo che questo fenomeno sia dovuto al modo in cui i magistrati hanno interpretato il loro ruolo soprattutto negli ultimi vent'anni. Molti hanno presentato le loro inchieste come crociate civili, si sono totalmente identificati con le loro "battaglie", hanno scritto libri, fatto apparizioni televisive, partecipato a convegni, rilasciato interviste, pronunciato conferenze e persino, in qualche caso, decorato con la loro presenza qualche pubblico corteo. Sono stati, insomma, personalità pubbliche con una forte visibilità nazionale. È davvero sorprendente che qualche partito abbia deciso di trarre un vantaggio politico dalla loro notorietà? È davvero sorprendente che molti di essi abbiano ceduto alla tentazione di passare dalle aule dei tribunali al Parlamento? Constato che questa tendenza è visibile in molti Paesi e appartiene per certi aspetti ai caratteri della democrazia di massa. Ma converrebbe allora ammettere che il procuratore non è un giudice e che il solo modo per evitare gli inconvenienti della sua eccessiva pubblicità è quello di separare la sua carriera da quella dei magistrati giudicanti. Saremo meno sorpresi e preoccupati, allora, quando un procuratore salirà a bordo di un partito per entrare in Parlamento.

Da il quotidiano: Il corriere della Sera
Risponde: Sergio Romano

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